RANCID: Let the dominoes fall

Questo era il disco dell’anno che sicuramente attendevo con più impazienza. L’attesa era salita viste le cocenti ultime delusioni avute da gruppi che personalmente amavo (Nofx, Anti-Flag, Lagwagon su tutti). Forse è stato proprio “And out come the wolves” a trasmettermi questo viscerale amore per la musica Punk (nella sua accezione più completa) prim’ancora dei grandissimi The Clash, cui la band di Tim Armstrong senza averlo mai nascosto si ispira e questo spiega ancora meglio la mia apprensione.

Con Matt e compagni ci eravamo lasciati ormai 5 anni fa ad “Indestructible”, disco che aveva sparigliato le carte dopo la precedente prova Hc del self-titled.
Erano ritornati al loro classico sound che mischiava Punk Rock a Ska con incursioni negli ambienti stradaioli. Personalmente il disco lo avevo molto apprezzato e penso che molte delle persone che lo criticavano allora, forse più con il cuore per il “tradimento” verso major, che per una reale bassa qualità delle canzoni in itinere poi si sono ricredute (soprattutto alla luce di quanto il mercato ha offerto negli anni successivi).
Chiaramente, fuor di dubbio, non parliamo di un capolavoro come “And Out Come the Wolves”, disco sicuramente ineguagliabile per intensità, genialità nel non fare nulla di nuovo ma fare estremamente bene condensandolo in un’unica opera quanto già fatto da altri (The Clash e Laurel Aitken su tutti), potenza condensata di follia e chi più ne ha più ne metta. Potrei proseguire con centinaia di mille altri aggettivi per definire “AOCTW”, che forse è il disco Punk più completo della storia (ovviamente de gustibus).

Per capire “Let the dominoes fall” penso sia necessario ripercorrere anche quanto vissuto dai vari “Rancidi” in questi anni. Tim Armstrong dopo il divorzio dalla moglie ha pubblicato “Haunted cities” (gran disco!) con i Transplants (side project con Travis Baker dei Blink 182) poi scioltisi e regalato ai suoi fan la perla di ska-reggae di “A poet’s life” accompagnato dai The Aggrolites, forse il suo più sentito tributo/omaggio all’amico Joe Strummer, Lars in compagnia dei Bastards ha pubblicato un tirato disco street punk-hc mentre Matt Freeman (forse il migliore bassista della scena punk!) dove aver combattuto e sconfitto il tumore si è tolto lo sfizio di accompagnare i Social Distortion in giro per gli States. Come si può ben capire, la band non è stata con le mani in mano ma si è ossigenata prima di tornare compatta assieme per regalarci questo “Let the dominoes fall”.

Dopo queste doverose premesse è arrivato il momento di parlare in dettaglio dell’album. Il disco si apre con il secondo singolo “East bay night”, che francamente mi aveva lasciato piuttosto interdetto, buona canzone ma che di sicuro non rientra tra le migliori dei Rancid. A seguire (“This is place”) salgono in cattedra i “punkrockers” Rancid per una tirata e ruvida canzone stradaiola proveniente direttamente dal ’77 lasciando però subito il passo agli “skankers” Rancid che ci regalano due minuti di sfrenato skankin come solo loro sanno fare. Riepilogando, tre canzoni e tre sound completamente diversi tra loro.

Dopo è il momento del primo singolo intitolato “Last one to die”, canzone francamente discreta ma che non procura alcun sussulto, decisamente meglio il testo che il sound tendente troppo al pop e alla ricerca di radiofonia (cosa che gli riesce decisamente meglio quando fanno i Rancid e basta). Primo cambio alla voce con Lars che si impossessa del microfono per aprire a “Disconnected” cui fa seguito la roca e grezza voce di Matt. In questa canzone forse ho trovato tutti i loro cliché e forse proprio questo mi ha fatto intravedere una certa mancanza di personalità (in merito alla canzone e non al disco sia chiaro).

Si ritorna su sound jamaicani con “I ain’t worried” che lasciano spazio poi alla più dirompente canzone del disco (“Damnation”), dannatamente punk rock come solo i Rancid sanno fare.
Si continua a salire di intensità ed emotività con “New Orleans” in cui Lars torna al microfono e i compagni al controcanto. L’acustica “Civilian ways”, che ricorda molto la versione acustica che di “Sound System” degli Operation Ivy che propongono in acustico durante i concerti, seppur sia una buona canzone mi lascia indifferente. Per fortuna ci ripensano subito a riportare alto il ritmo con le successive “The bravest kids”,“Skull city”,“L.A. River” e “Lulu”.

Dopo questa quaterna punk rock i Rancid si divertono con “Dominoes fall”, una delle migliori del disco. Di nuovo ska-style con “Liberty and freedom” che poi lascia il posto nuovamente al sacro verbo del punk rock per la doppietta di “You want it, I got it” (ottima) e “Locomotive” (discreta).

Ho provato a scavare nella memoria per ricordare a quella pezzo dei Clash si sono spudoratamente ispirati (sicuramente di Sandinista comunque) per “That’s just the way” in cui propongono un variegato meltin-pot sonoro. Il disco si conclude con un escursione anche nei campi battuti da Johnny Cash per “The highway” in cui con chitarra e armonica la band si congedano dal proprio ascoltatore facendo “music with their friends”.

Sicuramente non è un nuovo “And out come the wolves”, ciò non toglie però che sia veramente un gran disco di una band in forma che ritorna sulla scena perché sente di poter dare ancora qualcosa.

Voto: 8 (L’ennesima dimostrazione di grande arte per i Rancid)

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