DEAF AUTUMN: Davide Torti ci racconta tutto su questa nuova realtà alternative tricolore

D.A. Photo

Come dicevo nella mia recensione, il vostro album è sicuramente un buon prodotto alternative rock. Volete raccontarci innanzitutto chi siete e quali sono stati i passi fondamentali fatti fino alla pubblicazione di “What Was To Be Known”?

Prima di ogni cosa grazie per averci ospitato nei vostri spazi e per la recensione! Siamo un trio della provincia di Frosinone e il gruppo è nato da me e Davide Ricci (chitarra e voce), nonostante di base è un bassista anche lui come me. Siamo amici da tanti anni e abitiamo a pochi chilometri di distanza, abbiamo sempre avuto progetti paralleli, intuivamo una certa sintonia nei gusti musicali ma suonando entrambi lo stesso strumento non abbiamo avuto mai la possibilità di iniziare un progetto insieme vista anche la difficoltà di trovare altri elementi a cui piacesse il nostro modo di concepire i brani. Nell’autunno del 2013 abbiamo avuto finalmente l’occasione di provarci: Ricci ha imbracciato la chitarra e il batterista Davide Ciccarelli (che suonava già con lui) ci ha dato quello che mancava. In poche parole quello che ne è seguito è stato un percorso rapido e tutto in ascesa, in pochissime prove abbiamo composto quasi tutti i brani che ora sono sull’album, ci siamo buttati nei live dopo poche settimane, abbiamo visto che la cosa funzionava benissimo – oltre le aspettative – e da lì ci siamo messi sotto a lavorare duro (ma con tanta gioia!) per fare le cose fatte bene e professionalmente.

Arriviamo quindi al disco.  Ci volete raccontare quando è nato, come è stato lavorarci e qualche aneddoto particolare?
Registrare il disco è stata un’esperienza bellissima. Non era la prima volta che entravamo in uno studio di registrazione viste le passate esperienze musicali, questo ci ha giovato molto in termini di tempistiche e gestione del lavoro. La cosa particolare è stata la scelta dello studio. Non so se siamo stati i primi a fare una cosa del genere ma abbiamo fatto una specie di audizione pubblica! Ovvero abbiamo dapprima registrato il nostro primo brano “Get Inside Of Me” in home recording, una cosa molto approssimativa ma che rendeva bene l’idea sul genere di musica che volevamo registrare, l’abbiamo pubblicata su Facebook e chiesto a chi fosse piaciuto registrare la nostra musica e se ne fosse stato in grado. In effetti sono stati pochi a farsi avanti e abbiamo scelto quello di Federico Garofali, lo Squaring The Circle Studio perché era quello più adatto ai nostri gusti ed è un musicista che ha sempre ascoltato e suonato questo genere quindi nulla di più congeniale. Il resto è filato liscio come l’olio, Federico è stato in effetti l’elemento aggiunto al progetto, capendo e accompagnandoci esattamente nel punto dove volevamo andare. Nel complesso è stato quasi un anno di registrazione, tra ritardi dovuti a lavoro e impegni esterni, ma è stato tutto naturale senza stress di alcun tipo e con la giusta calma. Siamo soddisfatti in maniera assoluta del risultato, oltre le nostre stesse aspettative.

Il vostro sound a tratti malinconico mi ha riportato alla mente i Bayside. Siete d’accordo con me che all’interno del disco ci siano risvolti dark oriented che vanno a smorzare il vostro lato più heavy?
Sinceramente non saprei dirti quale influenza ha predominato sulla composizione di questo album… Come ti dicevo, abbiamo costruito i brani in maniera molto istintiva, buttando in un unico calderone tutte le idee che avevamo accumulato negli anni e quelle venute di getto cercando di plasmarle nel modo più diretto possibile a seconda delle nostre tendenze. Ricci viene da un’esperienza musicale molto più punk californiana rispetto alla mia che è passata dal grunge autolesionista al nu metal più dark (per citare quelle più incisive) e finire a quello che suono oggi. Avevamo dei gruppi che facevano impazzire entrambi ma non abbiamo preso un modello da seguire. Per esempio – perdonami l’ignoranza – ma non conosco nemmeno un pezzo dei Bayside! Ma prendo nota e vado a sentirmeli!

I testi credo vadano di pari importanza con l’aspetto sonoro, o mi sbaglio? Quali sono i temi trattati e a quale testo siete particolarmente legati? Perché?
Sono della convintissima opinione che i testi debbano rispecchiare l’aspetto sonoro e viceversa. I nostri testi sono il frutto di esperienze personali molto recenti che ci hanno dato parecchio materiale su cui scrivere, ma sono strutturati in modo tale da essere concettuali, quindi l’ascoltatore può ritrovarsi in molti di essi perché ci può vedere qualsiasi cosa. Per esempio se si parla di qualcosa per cui combattere può essere di tutto, una donna, un lavoro, la dignità, la propria terra o la vita stessa. Alcuni sono socialmente impegnati, altri sono impegnati a descrivere emozioni e reazioni. Per quanto mi riguarda sono molto legato al testo del brano “This Skin”, irruento e profondo come la musica che lo accompagna. Parla della passione che ci brucia dentro, che ci infiamma gli occhi e che dovrebbe farci vedere come stanno le cose, uno stimolo a cambiare la realtà scomoda che ci sta intorno senza perdere tempo a lamentarsi, un invito ad ascoltare l’istinto e a direzionare correttamente la passione verso obiettivi importanti cercando di causare lo stesso processo alle persone che ci sono vicine.

La sola cosa che non mi ha stupito granché è l’artwork. A cosa dobbiamo la scelta di porre in risalto il nome della band e non una grafica ad hoc?
Noi siamo soddisfatti dell’artwork. Abbiamo fatto la scelta di mettere in risalto un logo (che ci dovrà identificare per un bel po’ di tempo) con il nome della band proprio perché è il nostro album di debutto e volevamo si capisse al primo colpo a chi appartenesse il disco! Non è impegnativo come concept, ma è d’impatto e non crea confusione rispetto a cose molto (troppo) elaborate che poi magari sono anche di difficile interpretazione.

Ho come la sensazione che se ci fosse stata una produzione più “pompata” i brani avrebbero reso ancor più. Siete d’accordo con questa mia tesi?
Se per “pompata” intendi la produzione a livello tecnico/musicale, direi di no. I pezzi spingono al punto giusto da essere risuonati live con potenza ancora maggiore senza ausilio di basi o “stratagemmi” particolari. Se poi si parla di produzione artistica beh, non lo possiamo sapere. Per noi sono pezzi già funzionalissimi, poi è tutto relativo in base al produttore che potenzialmente ci avrebbe potuto indirizzare verso altre rese musicali.

La cosa che forse risulterà più difficile in futuro sarà dare nuovi imput al vostro percorso artistico. Siete già al lavoro su nuovi brani? Quali strade state percorrendo?
In realtà non penso sia così, non vedo difficoltà a riguardo. Abbiamo già molti brani nuovi su cui stiamo lavorando, abbastanza da comporre un nuovo album! Come detto in precedenza, il lavoro su “What Was To Be Known” è durato circa un anno e mezzo in totale, tempo in cui non siamo stati certo fermi nella scrittura di nuovo materiale. Il lavoro in studio ci ha dato molti stimoli e nuovi meccanismi da utilizzare per la stesura dei brani che verranno.

Parliamo di live. Come vanno le cose e cosa dobbiamo aspettarci da qui a fine 2015 sul fronte on the road?
Per quanto riguarda i concerti siamo molto attivi. Abbiamo suonato tanto da quest’inverno a oggi, tra cui spiccano due aperture agli Hopes Die Last. Quest’estate siamo impegnati con molti festival, ma il grosso lo vedremo questo autunno/inverno, ci sono in ballo delle date anche all’estero e se tutto va come deve andare abbiamo mete tra cui Germania e Regno Unito. Ma è da confermare.

La vena nostalgica pulsa forte in voi. Cosa manca oggigiorno a vostro avviso alla scena tricolore per tornare quella viva e attivissima di qualche anno fa?
Io penso che in realtà non si possa accedere a qualcosa di totalmente nuovo senza portarsi nel bagaglio la storia, seppur recente. La musica in genere non viene dal cielo ma è contaminazione e rinnovamento. Non possiamo inventarci niente se non per necessità. Ora c’è così tanta musica in giro che è difficile scremarla e notare le cose davvero interessanti. Questo periodo storico ritengo che sia una fase fondamentale, l’apparente crisi sta creando la necessità di fare cose importanti, di stimolare la ricerca. Personalmente questo disco è stato la realizzazione di un sogno che stavamo covando da tanto tempo, per questo forse può apparire nostalgico ma per noi non è affatto un difetto. Cosa dovrebbero fare allora band che suonano punk, thrash, grunge, nu-metal o addirittura blues? Sono generi datati di per sé, rispettivamente di 20-30-50 o 70 anni, lo stesso hardcore ne ha già 20. L’unica speranza è che i musicisti – soprattutto italiani – non abbiano paura di osare, di uscire dagli schemi, cercando di evitare di autoghettizzarsi (quindi di limitarsi) ai vari generi o sottogeneri musicali. E gli stessi recensori di volerli per forza classificare in un genere. A volte assisto a delle vere e proprie guerre (i famosi “flares”) tra fans e band di sottogeneri hardcore o metal, non è triste? Noi non ci siamo posti nessun limite, si nota perfino tra un brano e l’altro del nostro album. Può sembrare scontato come discorso ma ci siamo fatti trasportare dall’emozione senza preoccuparci di dargli un nome o un’etichetta.

Cinque dischi da portarsi in ferie?
“The long road home” Taproot
“The new black” Johnny Orange
“The sufferer & the witness” Rise Against
“Meet me halfway,at least” Deaf Havana
“LoveHateTragedy” Papa Roach

A voi la chiusura!
Portatevi il nostro disco in vacanza,non ve ne pentirete! Un abbraccio a tutti voi di Punkadeka!

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