GOSSIP: Undead in NYC

Pare che i Gossip di recente siano sulla bocca di tutti, come la “nuova rivelazione” in campo punk/blues insieme a Von Bondies e altre formazioni relativamente affini che vengono accostate con il solo criterio di un’etichetta  -punk, lo-fi, rokkarolla etc.- che spesso, purtroppo,  non significa (più) un cazzo. Questo per dire come sovente sia difficile rispondere alla domanda “che genere fanno?” e per rammentare una volta di più che le parole cambiano col tempo forma odore e colore e a volte perdono tutte queste caratteristiche. Pertanto, andrebbero usate con parsimonia. Parla uno che da tre righe sta dicendo cazzate. Fine della tirata pseudofilosofica.

Comunque i Gossip fanno questo genere… è impossibile negarlo: tre accordi, quattro, se vogliamo fare gli esperimenti (è blues alla fine:… cosa pretendete?!), due chitarre, una batteria ultraminimale e una cantante urlatrice che pare posseduta da un demonio col pallino per Elvis.A me “sta roba” piace… Tanto.
Il fatto che poi al momento “sta roba” sia “di moda” (oddio, non so nemmeno poi quanto) perché i White Stripes hanno sbancato, non me ne può fregare di meno, anzi! E’ proprio grazie a questi fenomeni passeggeri, quando l’underground viene alla luce e si brucia la pelle sotto i riflettori, che si ha modo di scoprire che c’è un sacco di roba ancora migliore che invece resta nell’ombra.
Peraltro scavando nella memoria, mi pare di ricordare di aver letto dei Gossip per la prima volta su una rivista Italiana già nel duemilauno, ma so che sono in giro da un po’ più di tempo: questo per scagionarli da ipotetiche accuse di “ultimi arrivati”.Che poi: i Cramps già facevano di peggio nel ’76, gli Stooges nel ’69, Robert Johnson nel ’38….beh insomma ci siamo capiti.

 Ma parliamo (finalmente…) del disco.Registrato dal vivo in una notte del Luglio 2002 alla Knittin’ Factory di N.Y, “Undead” diventa, nella sua scarsa qualità sonora, un documento (IL documento?) che attesta la validità della proposta musicale di questa band, proiettata sì verso la modernità (quelle urla così ipermetropolitane, quelle chitarre come macchine in un’officina meccanica, quell’incedere senza respiro della batteria) eppure così  genuinamente ancorata alla tradizione, anche quando non manca di pagare l’ovvio tributo alla scuola di Detroit nell’esecuzione impeccabilmente inascoltabile dello standard “I wanna be your dog” (Vorrei essere il tuo cane).

 A Jacopo non piace:
-quando le parole perdono significato;
-leggere recensioni lunghe e inconcludenti;
-contraddirsi e parlare a vanvera;

 A Jacopo piace:
-questo disco,  nonostante sia registrato malissimo e quindi lo sconsiglia ai “neofiti” e ai puri d’orecchio;
-il fatto che una canzone (“Gone Tomorrow”) sia identica ad una che lui stesso suonava con la sua band;
-parlare a vanvera e contraddirsi; 

 Quindi anche con Amelie Poulan (filmetto senza sale in fin dei conti) siamo a posto.

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