VIRUS: CONTAMIN-AZIONE PUNK A MILANOI primi centri sociali

Capitolo Secondo (Parte seconda)
A Milano, tra il ’75 e il ’76, consistenti strati giovanili delle estreme periferie della metropoli prendono coscienza delle loro misere condizioni di esistenza: la condizione di studenti per alcuni, di disoccupati per altri, quello di operai precari e sottopagati i più.
Questi danno vita a nuove forme di aggregazione; lasciano le panchine della periferia, per anni il loro unico posto di ritrovo dopo il lavoro o nell’attesa di trovarne uno.
Uno dei problemi fondamentali per loro è quello di “come gestire il tempo libero, prima che la noia, l’abbandono e la miseria li seppellisca.” [Balestrini, Moroni, 1997, pag. 509]

Annesso è il problema degli spazi: dove incontrarsi per “fare” qualcosa e sfuggire ad un destino che pare inevitabile?

In questi anni nascono i Circoli del proletariato giovanile.

Queste sono aggregazioni di giovani, spesso provenienti dai partitini della nuova sinistra in crisi, che teorizzano la soddisfazione immediata dei propri bisogni.

I Circoli danno il via nel 1976 alla prima ondata di occupazioni di stabili (case vecchie e sfitte, fabbriche abbandonate etc), soprattutto nel centro della città.

In questi luoghi si fondano i primi centri sociali, tra cui il Leoncavallo e lo stabile di Via Correggio 18, al cui interno nascerà il Virus qualche anno più tardi.

I centri sociali sono dei luoghi di aggregazione e di ritrovo dove i giovani si possono confrontare sui loro bisogni e problemi concreti: la mancanza o la precarietà del lavoro, la diffusione sempre più massiccia delle droghe pesanti (soprattutto nei quartieri periferici), la crisi dei modelli politici, il crollo dei valori tradizionali come la famiglia, il problema della casa.

I ragazzi dei Circoli e dei centri sociali rifiutano di accettare le logiche di una società che li vorrebbe dediti al lavoro e alla famiglia; non vogliono essere dei soggetti passivi, ma pretendono di scegliere come organizzarsi la loro vita e in che modo raggiungere la loro felicità.

Si tratta perlopiù di operai precari, apprendisti, impiegati o disoccupati che provengono dalle aree periferiche della città, dove gli effetti della crisi economica e politica sono più tragici.

Sono giovani che abbandonano l’etica del lavoro e del sacrificio e richiedono, invece, il loro diritto al consumo e alla soddisfazione non solo dei bisogni primari, ma anche il diritto al lusso e al superfluo; insomma, chiedono una vita che valga la pena di essere vissuta.

Si diffondono quelli che i giovani dei Circoli chiamano gli espropri
proletari, che diventeranno una costante di tutte le rivolte giovanili nelle metropoli occidentali negli anni ’80.

“Molti di noi hanno rifiutato di farsi una famiglia, hanno rifiutato il ricatto dei padroni: “Se non ti sposi non hai diritto alla casa”.

I proprietari di case non vogliono affittare a chi non ha le garanzie morali della famiglia.

A questo si aggiunge il costo degli affitti: noi non siamo in grado di pagare gli affitti da rapina che ci vengono imposti.

Poiché non vogliamo vivere in un mondo chiuso e individualista, dove non si pone mai in discussione il modo in cui viviamo la nostra vita privata, rifiutiamo la separazione tra vita privata e vita all’esterno. […]

Il movimento del proletariato giovanile, nato dall’esigenza di avere luoghi di ritrovo dove discutere e organizzarsi per gestire in maniera diversa il tempo libero, ha l’esigenza di andare più avanti, di dire qualcosa sul lavoro, sulla famiglia, sugli altri.[…]

Uscire dalla crisi non significa “tirare la cinghia”, ma farla finita con questo modo di vita e di lavorare.

In questi ultimi mesi abbiamo occupato case sfitte da anni, ci siamo gestiti queste occupazioni, che sono già 5 a Milano.

Vogliamo vivere in maniera diversa dalla famiglia, in maniera autonoma, non vogliamo nemmeno, però, che i rapporti comunitari all’interno delle case occupate riproducano ruoli simili a quelli della famiglia, vogliamo cominciare a vivere la nostra vita, con tutte le contraddizioni che le nostre scelte ci provocano, ma che comunque vogliamo noi”.[i]

Per questo cominciano a diffondersi le pratiche della riappropriazione delle merci nei negozi di lusso e di generi alimentari, dei veri e propri saccheggi per ottenere quello che è impossibile comprare per i prezzi troppo alti.

Durante i cortei vengono svaligiati negozi e i giovani irrompono nei supermercati e impongono la “spesa proletaria”.

Non c’è più la critica feroce al consumismo, anzi c’è la piena accettazione della società dei consumi, solo che questo avviene proprio quando una tremenda crisi economica rende impossibile a questi giovani la soddisfazione dei loro desideri.

Insieme cominciano le autoriduzioni, che però non riguardano più le bollette della SIP o dell’ENEL, come agli inizi degli anni ’70, ma i cinema di prima visione, i teatri e tutti gli spettacoli di intrattenimento.

I giornali e le forze politiche non possono più ignorare il fenomeno che ormai ha raggiunto proporzioni di massa e reagiscono con una netta demonizzazione del fenomeno e un invito alla criminalizzazione.

Intanto i Circoli diffondono il loro programma “Ribellarsi, è ora? Sì “:

“Siamo espropriati di tutto, piegati alla peggior schiavitù del lavoro salariato, condannati a rimanerne fuori al prezzo della più umiliante miseria materiale e disgregazione umana.

“La nostra vita viene risucchiata da 8-10 ore giornaliere di sfruttamento; il tempo libero diventa solo uno squallido ghetto, alla ricerca disperata di evasione. Siamo costretti a sentirci inutili in questa società che distrugge i rapporti sociali, i rapporti umani. Come possiamo non volere tutto? Volere essere noi padroni della nostra vita, del presente e del futuro? Volere essere noi a decidere dell’educazione del nostro corpo, dei sensi e della mente? Volere essere noi a decidere del nostro lavoro, quanto -cosa- come lavorare?

Per questo diciamo che vogliamo tutto!

Per questo diciamo che ribellarsi è ora!

Facciamo le feste perché vogliamo divertirci, stare insieme, affermare il diritto alla vita, alla felicità, a un nuovo stare insieme.

Occupiamo gli stabili perché vogliamo avere dei luoghi di incontro, di discussione, per suonare, fare teatro, inventare, per avere un luogo preciso alternativo alla vita in famiglia.

Facciamo le ronde per difendere gli apprendisti dal supersfruttamento, per impedire lo spaccio di eroina, per spazzare via i fascisti.

Facciamo autocoscienza per conoscerci meglio, affrontare collettivamente e politicamente i nostri problemi individuali e personali.

Facciamo le assemblee sull’eroina, perché vogliamo costruire insieme anche a chi si buca un’alternativa di vita e non di morte, e per spazzare via fascisti e mafiosi che spacciano per soldi.

Lottiamo e scioperiamo nelle fabbriche perché vogliamo lavorare di meno e meglio, cioè con il potere in mano.

Queste sono le cose concrete che il nostro movimento sta esprimendo.

Questa è la nostra voglia di comunismo cioè pane e rose.[…]”.[ii]

Questi Circoli giovanili trovano subito un supporto organizzativo in strutture politiche e culturali già consolidate come la rivista “Re Nudo” e l’organizzazione Lotta Continua.

Il limite di questa ideologia, figlia diretta della società moderna e del consumismo, appare con tutta la sua forza in occasione della festa al Parco Lambro nel Giugno del 1976, organizzata proprio da “Re Nudo”.

In questa occasione le contraddizioni e le debolezze del nuovo movimento esplodono: nel capoluogo lombardo si susseguono quattro giorni di tensione e violenza esasperate, in cui appare chiaro che il nuovo movimento è un magma incontrollabile che pone al centro delle sue richieste la realizzazione dei propri bisogni e della propria soggettività.

Tanto grande è la sorpresa per il clamoroso fallimento negli stessi ambienti controculturali che su “Re Nudo” di Luglio ‘76 si parlerà di “morte del concetto stesso di proletariato giovanile inteso come un comportamento unitario che non univa solo in base ai bisogni, ma soprattutto in base alla pratica di vita…i nuovi incazzati parlano sempre meno di mettersi insieme per sperimentare momenti nuovi di vita comunitaria e sempre più si mettono insieme per organizzare “la banda dell’esproprio””.[ Moroni, Balestrini, 1997, pag. 127]

Si esprime fortemente la rabbia di migliaia di giovani che provengono dalla periferia urbana, dalla desolazione dei loro quartieri, dal senso di morte che li pervade, dallo squallore dell’eroina e rivendicano il diritto alla vita e alla felicità.

E ‘ un trauma per tutti poiché ci si trova davanti la realtà come è: solitudine, violenza, miseria materiale moltiplicata per 100.000 giovani.

Dell’evento parlerà molto anche la stampa.

Sul numero di luglio di “A/traverso” , rivista anarchica bolognese, si legge:

“Ci si rotola per 4 giorni in mezzo a un mare di rifiuti col sole opprimente e la pioggia melmosa delle notti, con gli scarafaggi nel sacco e i piatti di plastica nauseabondi.[…] si espropriano gli stand dei compagni e fra gli espropriatori c’è chi distrugge il banchetto dei gay del Cony, chi aggredisce le donne e durante la notte organizza gruppi che gridano: Uomini del Lambro, carica!!

L’aggressività dell’impotenza si misura con l’impotenza di questa aggressività e tutte le tensioni si scaricano nel ghetto, dove l’esproprio è sostituito dal suo spettacolo.

Tutta la merda, la miseria, l’impotenza costruisce qui la sua ideologia, il movimento delle separazioni finisce nella separatezza degli isolamenti oppure nello scatenamento dell’aggressività”.[iii]

Solo i settori del movimento che fanno riferimento all’area dell’autonomia operaia cercano di trovare un modo per ricominciare proprio a partire dalla festa del parco Lambro, considerandolo come un momento di cambiamento positivo.

Sul numero del luglio 1976 della rivista milanese “Rosso”, si legge infatti:

“Le occupazioni di case, le appropriazioni dei supermercati, le lotte per il salario, l’organizzazione contro lo spaccio di eroina, i movimenti di liberazione, l’esplosione del movimento femminista sono entrati come protagonisti in questa festa e hanno decretato la morte del festival pop di “Re Nudo”.

Una cosa è stata chiara a tutti: che i giovani proletari vogliono fare la festa per divertirsi, ma anche per affermare i propri bisogni. E questi sono contro l’ordine della metropoli capitalistica, contro il lavoro della fabbrica del capitale, contro la repressione della cultura dei padroni.

A tutto questo i giovani proletari vogliono fare la festa.

La tensione a uscire dal parco Lambro, visto ormai come un ghetto, e a portare la festa nella città, contro la città, è la conquista di questo festival.

L’indicazione venuta da molti compagni nel festival di tornare a portare nei quartieri i contenuti espressi nell’espropriazione e nell’assemblea è un programma di lavoro politico e di continuità.

E’ la consapevolezza della necessità di riunificare in forma di lotte e di organizzare i bisogni espressi dal proletariato giovanile al Lambro con le lotte degli operai contro il lavoro, con le lotte dei disoccupati per il salario, con l’attacco dei carcerati allo stato repressivo, con il rifiuto dell’oppressione maschilista da parte delle donne.

Torniamo nei quartieri e nelle fabbriche perché il fiore di rivolta sbocciato al Lambro si moltiplichi in cento fiori di organizzazioni, in mille episodi di riappropriazione, in solide basi di contropotere, in capacità di organizzare per il prossimo anno una grande festa, la nostra festa contro la metropoli”.[iv]

Il movimento torna a farsi sentire a Milano a dicembre, con l’accesa contestazione alla prima della Scala.

In pieno regime di sacrifici e crisi economica, il fatto che la ricca borghesia milanese si conceda il lusso di pagare centomila lire per uno spettacolo, appare ai giovani dei Circoli come una vera e propria provocazione.

La notte del 7 dicembre sarà una notte di vera guerriglia urbana in cui si scatenerà un’ondata di dura repressione attuata dalla polizia milanese.

Dichiarerà una giovane dei Circoli sul numero di febbraio 1977 di Re Nudo:

“Si, sono violenta e la violenza che c’è stata per la Scala è la rabbia che si esprime a Quarto Oggiaro. A Quarto Oggiaro le persone sono ridotte a doversi fare un buco di eroina per sopravvivere, perché non ci sono spazi nei quartieri, non ci sono spazi nella città, non c’è spazio per il lavoro, non c’è spazio per niente. La prima espressione è un’espressione di rabbia, quindi di violenza. Il semaforo di un incrocio non è importante però personalmente io lo spacco perché ho una rabbia che non riesco a indirizzare”.

Cinquemila tra poliziotti e carabinieri assediano la zona circostante piazza della Scala, dando vita ad una vera caccia all’uomo per le vie del centro.

La nottata si concluderà con 250 fermati, 30 arrestati, 21 feriti.

Appare nelle strade milanesi quella che verrà definita in seguito “l’area dell’autonomia sociale”, un magma nel quale convivono istinti ribellistici, una disponibilità alla violenza anche estrema con un netto rifiuto dell’organizzazione politica e in alcuni casi dell’idea stessa di politica.

Da questo momento in poi l’atteggiamento delle istituzioni, della polizia, del servizio d’ordine e dei media nei confronti del movimento sarà sempre di repressione incontrollata.

Questa della Scala sarà anche l’ultima sfida violenta del movimento dei circoli a Milano: nel 1977 l’iniziativa di movimento passerà a Roma e Bologna.

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